Un libro alla settimana: Vita e destino

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22 aprile 2022

160422GrossmanPESARO – Due notizie da Londra, lo stesso giorno, mercoledì 20 aprile: gli organizzatori vietano ai tennisti russi e bielorussi di partecipare al torneo di Wimbledon; la Corte di Londra ha emesso l’ordine formale di estradizione negli Usa per Julian Assange.
Da tre anni, il giornalista australiano è  rinchiuso nel carcere di Belmarsh, il più duro della Gran Bretagna, mentre i colpevoli dei misfatti scoperti da Wikileaks non hanno fatto un solo giorno di prigione. Curioso esempio della democrazia occidentale.
Così, stamattina, 22 aprile 2022, leggendo i quotidiani, non ho potuto fare a meno di ridere quando mi sono trovato davanti a La cattiveria che www.forum.spinoza.it pubblica quotidianamente nella prima pagina de Il Fatto Quotidiano. Due frasi che fotografano la questione meglio di ogni articolo: Assange rischia 175 anni di carcere negli Usa per aver rivelato crimini di guerra. Se li avesse commessi, sarebbe presidente.
La pura verità.
Ma non è facile, in questo mondo, fare lavorare il cervello e non piegarsi alla stupidità del pensiero unico. Non è facile, visti i plotoni d’esecuzione del giornalismo servile che urla contro la carcerazione di Navalny, ma decide di ignorare cosa sta accadendo a Julian Assange.
Giornalisti al servizio della democrazia e della libertà (lo dicono loro, lo smentiscono i fatti). Quale democrazia, quale libertà?
Se la Russia lo fa con Navalny, Putin è un dittatore; se lo fa Joe Badenputin… – attenzione, non è un refuso – , va bene  e chi ha scoperchiato il pentolone delle più grandi porcherie commesse da Stati Uniti e Gran Bretagna finisca pure in galera a vita.
Invito a un minuto di silenzio, ma vista la situazione attuale non basterebbe un anno, per la morte della libertà certificata con l’estradizione dell’uomo che ha scoperchiato  il vaso dei più orribili segreti delle condotte dei governi di USA e Regno Unito. È solo grazie ad Assange e ai suoi collaboratori che abbiamo saputo delle peggiori nefandezze accadute per mano degli eserciti dei due paesi.
E che dire del no ai tennisti russi e bielorussi? Che anche lo sport è asservito.
Quando, nel 2003, gli angloamericani hanno invaso l’Iraq, accusando Saddam di avere armi di distruzione di massa – un falso scandaloso -, il torneo parigino di Roland Garros – giusto per fare un esempio – non ha escluso, giustamente, i tennisti americani e inglesi. Ma loro, gli angloamericani, si sentono, nei fatti lo sono, padroni del mondo.
Non è facile sorridere guardando le immagini che arrivano dall’Ucraina, e neppure dalla Russia.
Putin, visto giovedì in Tv, è sembrato completamente rifatto come il suo amico Berlusconi. Una cera.
Giorni prima, lo zar del Cremlino ha  telefonato a un altro amico che vive a Riyad, eliminando le – speriamo rarissime – simpatie.
+966… “pronto… parlo con il campione dei diritti umani, con Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd, l’erede del re dell’Arabia Saudita, il principe del nuovo Rinascimento amico di Matteo Renzi?”…
In persona, caro Vladimir…”, ha risposto il mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Kashoggi, ucciso il 2 ottobre 2018 negli uffici del consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul.
Un colloquio tra dittatori, un accordo tra Russia e Arabia Saudita. Con una piccola differenza: il saudita ha rapporti con tutti e guida la coalizione araba,  sostenuta dagli Stati Uniti d’America, che in Yemen sta perpetrando un genocidio. Assai peggio di quel che avviene in Ucraina. Scritto con il massimo rispetto per le vittime civili, ma anche militari, soprattutto di quelli che tutto avrebbero voluto fare meno che la guerra.
Attendiamo un commento di Renzi sul colloquio tra il suo amico principe rinascimentale e il dittatore russo.
A proposito di coalizione araba. Ne fa parte anche il Bahrain, così ricco di petrolio, ma altrettanto allergico ai diritti umani.
Questa settimana, dopo che l’ambasciata londinese del piccolo paese del Golfo ha ufficializzato la trattativa per acquistare il Milan, abbiamo letto tanti articoli agiografici sul Bahrain.
Un paese cinque volte più piccolo della Valle d’Aosta – ha scritto gazzetta.it – , ma fra i più ricchi al mondo, che ospita numerose basi navali americane (e ti pareva!; ndr), ama il cricket e ha una grande passione per il calcio”.
Ovviamente silenzio totale sulla mancanza di diritti umani. Poco importa davanti a un assegno da 1 miliardo di euro per diventare proprietari dei rossoneri. Colori perfetti per il Regno del Bahrain: rosso come il sangue sparso in Yemen, nero come l’anima del re Ḥamad bin ʿĪsā Āl Khalīfa.
Fra i tanti articoli sul tema, solo quello firmato da Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, per Le persona e la dignità, blog del Corriere della Sera, racconta cos’è il Regno del Bahrain:
Dopo aver stroncato brutalmente la rivolta della primavera del 2011 – la primavera araba; ndr – anche grazie alla collaborazione delle forze armate dell’Arabia Saudita, le autorità locali hanno sistematicamente ridotto al silenzio, con arresti, torture e condanne – anche alla pena capitale – chi osasse criticarle: difensori dei diritti umani, attivisti, oppositori politici, giornalisti e altri ancora. Nelle carceri del regno della famiglia al-Khalifa languono ancora, in pessime condizioni di salute, prigionieri di coscienza condannati solo per aver denunciato le violazioni dei diritti umani: tra questi, Abdulhadi al-Khawaja (le cui figlie sono state costrette ad andare in esilio) e Abdul-Jalil al-Singace.
Quisquilie.
In tema di sorrisi, anzi di risate, ringraziamo Kaja Kallas, primo ministro estone. Intervistata da George Grylls per The Times, quotidiano londinese, Kallas si è lanciata in un’affermazione smentita dai fatti, dalla storia.
If women were in charge there would be less violence è il titolo dell’intervista, pubblicata venerdì 5 aprile. Se ci fossero più donne alla guida dei governi, ci sarebbe meno violenza. A maggiore ragione se ci fosse una donna al Cremlino.
Kaja Kallas l’ha raccontata così: “Forse è molto sessista, ma lo dirò comunque: se hai dato alla luce una vita umana, togliere la vita al figlio di un’altra madre è così crudele”.
Kaja Kallas, racconta Wikipedia, ha una laurea in giurisprudenza a cui ha aggiunto un master in economia. Inizia la sua carriera lavorando come avvocato nel settore del diritto europeo e dell’antitrust, poi, come da tradizione di famiglia – suo padre Siim Kallas è stato sia primo ministro estone sia commissario europeo ai trasporti – entra in politica ed è eletta europarlamentare. Dal 26 gennaio 2021, Kaja è alla guida dell’Estonia. Ma non conosce la storia, e se la conosce finge di averla dimenticata.
Con una  donna al Cremlino, come negli auspici di Kallas, sarebbe cambiato qualcosa?
Se studiamo la storia recente, di esempi positivi al femminile ne troviamo assai pochi.
Margaret Thatcher, primo ministro inglese dal 1979 al 1990, oltre ad avere massacrato le classi lavoratrici del suo paese, ha promosso nel 1982 la guerra delle Falkland, piccole isole a 480 chilometri a sud-est dalle coste argentine, dove sono chiamate Malvinas; isole distanti 12.754 chilometri dall’Inghilterra. Thatcher trasformò le Malvinas-Falkland in uno dei simboli del nuovo imperialismo britannico.
Nessuno disconosce che, in un momento economico drammatico per l’Argentina, la dittatura militare del generale Leopoldo Galtieri giocò la carta del nazionalismo rivendicando la sovranità delle Malvinas, ma la Thatcher  non seguì quello che Kaja Kallas vorrebbe come precetto. E scatenò la guerra, che provocò 255 vittime inglesi, 649 argentine e 3 civili.
All’attenzione di Kaja Kallas: Margaret Thatcher ha avuto due figli, Michael e Amanda.
Hillary Clinton, Segretario di Stato, promosse con i bombardamenti su Tripoli la destituzione di Gheddafi. Molte le vittime civili, compresi i bambini. L’ineffabile Hillary raccontò, e continua a raccontare, che fu un intervento sollecitato dagli stessi libici, e che avrebbe dovuto fare altrettanto in Siria. Infatti, grazie alle bombe sganciate dai poliziotti del mondo, gli Stati Uniti d’America, la Libia è diventata un paradiso.
Lo ha fatto da Segretario di Stato. Immaginate quante guerre avrebbe scatenato da presidente. Al suo posto ci pensa Biden. Hillary ha una figlia, Chelsea.
Madeleine Korbel Albright, il vero nome è Marie Jana Korbelová, Albright è il nome del marito.  Nata a Smíchov, oggi Repubblica Ceca, è stata a sua volta Segretario di Stato. Madeleine Albright fu anche mentore di Hillary. Già ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite, a dispetto di chi le era ostile, Albright fu nominata Segretario di Stato da Bill Clinton. Fu una delle più accese sostenitrici dei bombardamenti in Jugoslavia (1999). Madeleine Korbel Albright ha avuto tre figlie: Alice,  Katherine e Anne.
Victoria Nuland, l’ultimo sciagurato esempio di cosa sono gli Stati Uniti d’America. Discendente di migrati ucraini,  e forse proprio questo spiega le sue scelte imposte ai diversi presidenti con cui ha collaborato, è la prima artefice della fornitura di armi all’Ucraina. Non da oggi. Nuland era a Kyev quando ci fu l’assalto al presidente eletto Yanukovich. Sottosegretario di Stato per gli affari politici dal 2021 con l’amministrazione Biden, in precedenza ha collaborato con Obama e Bush jr, del quale è stata ambasciatrice alla NATO. Suo marito, Robert Kagan, è un repubblicano neocon, ma lei ha lavorato soprattutto con i democratici, mentre Trump l’ha tenuta fuori. Nuland, famosa per il suo “Fuck Europe”, che l’Europa si fotta, di cui abbiamo scritto il 25 marzo nella rubrica dedicata a La gatta di Varsavia, è un illuminante esempio della falsità degli USA, che quando non bombardano o non invadono come la Russia, fanno saltare i governi eletti con le loro trame segrete. La “specializzazione” di Victoria Nuland – scrive il sito it.public-welfare.com – è l’espansione dei confini della NATO e ogni opposizione a paesi che sono anti-americani. Victoria Nuland ha due figli.
Dunque, basta essere donna per non fare la guerra? No, purtroppo non basta.
A proposito di risate, un’altra me l’ha regalata Joe Biden, dichiarando – giovedì – che “Gli USA non rinunceranno mai a combattere i tiranni”. Salvo quelli appoggiati dalle stelle e strisce, come il re del Bahrain, o quelli messi al potere con le cospirazioni della CIA. L’elenco è lunghissimo, soprattutto in America Latina.
Lo confesso: mi indigna un mondo che si mobilita a senso unico per l’Ucraina, ma ignora tutte le altre guerre. Quella in Yemen è devastante. Ciò che fanno i turchi ai curdi è un’infamia che dura da sempre, ma Erdogan, eletto “democraticamente” ma dittatore nei fatti, detta legge negli incontri internazionali e la sua Turchia fa parte della NATO. Una meraviglia!
Il 30 novembre 2014, Maria Grazia Bruzzone, pubblicò, su La Stampa, un’inchiesta che dovrebbe fare vergognare chi si è lanciato ventre a terra, senza se senza ma, a favore di Zelens’kyj e della sua politica.
Vi propongo il link dell’intero articolo di Maria Grazia Bruzzone (spero vogliate dedicare gli 8 minuti necessari), che introducono al tema del libro di questa settimana.
https://www.lastampa.it/blogs/2014/11/30/news/i-neo-nazi-imperversano-in-ucraina-ma-il-nazismo-non-e-piu-il-male-assoluto-per-l-occidente-br-1.37251621/?fbclid=IwAR1iWLJuQ6bgve3hqsgRK32a_Vhmi1zoi4bxBWpyT0mmUx33eYhERlfK9Ycu
Leggendolo capirete che Putin non farnetica quando parla di “nazisti al potere in Ucraina”. Ciò, ovviamente non gli concede il diritto di invadere un altro paese, ma ancor meno concede ad americani e inglesi, con la complicità degli altri paesi NATO, di farneticare sulla tutela della democrazia. Però ci sono giornalisti italiani che, pure di andare contro Putin e addirittura le proprie idee professate per anni, difendono il battaglione Azov, composto da nazisti.
Anche per questo ho un altro consiglio: non perdete di guardare questo video:
https://www.youtube.com/watch?v=25XFBj-vGsI
È un’intervista di byoblu.com a Giorgio Bianchi, fotoreporter, giornalista e documentarista, che per il Governo ucraino è persona non gradita. Perché? Ha raccontato la rivoluzione di Maidan e i fatti in Donbass con gli occhi del vero giornalista, non con quelli dei venduti nel cervello e nel cuore, ammesso ne abbiano uno.
Purtroppo, di fronte a Putin e ai russi che hanno invaso l’Ucraina, siamo arrivati a cancellare la storia, fino al punto di irridere – come fa la Repubblica, che i soldi dei russi li ha presi davvero, in passato, quelli che hanno ancora un cervello che funziona senza bisogno di dettatura.
Intanto, però, hanno cancellato quasi tutti la notizia su Assange, un vero giornalista rispetto ai tanti asserviti di casa nostra. Solo La Stampa, con un richiamo in prima pagina, poi con un articolo a pagina 21, racconta gli ultimi sviluppi della vergogna – sono parole mie – firmata da USA e GB.
Ah, se in Italia ci fossero tanti Giorgio Bianchi e meno  criottini
Al momento accontentiamoci di leggere Vasilij Grossman…
Nato a Berdyčiv, in Ucraina, nel dicembre 1905, Grossman, il cui cognome racconta l’origine ebraica, dopo essersi laureato in ingegneria, decise che il suo futuro sarebbe stata la scrittura. Prima della Seconda Guerra Mondiale pubblicò racconti e romanzi. Ma è stato straordinario giornalista, inviato al seguito delle truppe sovietiche che avanzavano verso ovest. Era comunista convinto, fino a quando…
Corrispondente di guerra per Krasnaja Zvezda, stella rossa, il quotidiano dell’esercito, trascorse tre anni al fronte e iniziò a scrivere Il popolo è immortale, un libro senza eguali. Nel 1944 fu tra i primi a entrare a Treblinka, il campo di sterminio nazista. La persecuzione degli ebrei fu uno dei temi che hanno accompagnato la sua opera. Purtroppo, come lui e altri hanno raccontato, l’antisemitismo non fu peculiarità del nazismo e del fascismo. L’Unione Sovietica conobbe altrettanto orrore.
Ricordo che nel dicembre 1988, di nuovo a Mosca con la Scavolini ospite dell’Armata Rossa, l’albergo era nell’allora Gorky Prospekt, oggi Tverskaya Ulitsa, a pochi passi dal Cremlino. Dopo la partita in Leningradsky Prospekt, la casa del CSKA, finita a tarda ora, riuscii a cenare nel bar dell’albergo. A farmi compagnia il direttore sportivo Massimo Cosmelli, amico di tante belle trasferte in ogni angolo d’Europa, e Franco Mancuso, altro grande amico, addetto alle statistiche della squadra. Vicino al nostro tavolo, alcune donne. Sembravano prostitute, ma erano dimesse rispetto alle altre, vistose e volgari, viste all’entrata dell’hotel. Mi colpì una, dalla cui camicetta, appesa a una catenina, spuntava una Stella di David. Scambiai qualche parola, in inglese. Le domandai se voleva rispondere ad alcune domande, concedermi un’intervista. Mi chiese, se ricordo bene, 200 dollari; credo fosse la tariffa per una prestazione sessuale. Accettai e mi precipitai in camera a prendere il registratore. Non volevo che il contenuto dell’intervista potesse essere frainteso. Quando tornai al bar, la giovane era sparita, e con lei il resto della compagnia. Rimasi sorpreso, deluso. Franco mi raccontò che fra lei e le altre amiche c’era stata un’accesa discussione e che l’avevano portata via quasi di forza. I 200 dollari restarono nelle mie tasche, la cassetta del registratore intonsa.
Era il 1988, s’avvicinava a piccoli passi la fine dell’Unione Sovietica, ma la situazione era ancora difficile per gli ebrei.
Ho pensato a quella sera leggendo Vita e destino di Grossman.
Mentre scriveva, già nel 1943, la dilogia Za pravoe delo (Per una giusta causa; che in Italia è pubblicato con un titolo più attraente: Stalingrado) e, appunto, Zhizn i sudba (Vita e destino), Vasilij non sapeva di essere finito nel mirino del KGB che s’era impadronito di un manoscritto, poi fatto avere al Comitato Centrale del PCUS, il partito comunista sovietico. Non riuscirono a salvare Grossman gli  straordinari racconti dal fronte e l’esaltazione dell’eroismo del popolo che aveva resistito ai nazisti, anzi vinto i nazisti, a dispetto di una cinematografia che esalta quasi esclusivamente gli americani.
Nel 1961 gli agenti dei famigerati servizi segreti sequestrarono le copie a carta carbone, gli appunti e persino i nastri della macchina da scrivere. Grossman morì tre anni dopo, senza vedere la pubblicazione del suo libro. Però due copie dattiloscritte erano sfuggite al sequestro e una di queste, microfilmata, fu mandata in Occidente. La pubblicazione nel 1980. La censura era sconfitta.
Ho appena terminato un grande romanzo a cui ho lavorato per quasi dieci anni…”, scrisse nel 1960 Vasilij Grossman.
La nebbia copriva la terra. Il bagliore dei fanali delle automobili rimbalzava sui fili dell’alta tensione che correvano lungo la strada.
Non aveva piovuto, ma all’alba il terreno era umido e, quando si accendeva il semaforo, sull’asfalto bagnato si spandeva un alone rossastro. Il respiro dei lager si percepiva a chilometri di distanza – lì convergevano i fili della luce, sempre più fitti, la strada e la ferrovia. Era uno spazio riempito di linee rette, uno spazio di rettangoli e parallelogrammi che fendevano la terra, il cielo d’autunno, la nebbia.
Sirene lontane – un ululato continuo.
È la prima pagina, pagina 13 del Libro Primo. I libri sono appunto tre: primo, secondo e terzo; in coda l’elenco dei personaggi. In tutto 969 pagine di un libro emozionante, commovente. Merito di Vasilij Grossman, ma a mio modesto parere anche della magnifica traduzione di Claudia Zonghetti. È un piacere scrivere di Claudia Zonghetti, fanese, di come si racconta.
Sono nata nelle Marche, sul mare. E il mare mi manca. 
Da piccola volevo fare l’archeologa. Un giorno lessi nella biografia di Schliemann che conosceva diciassette lingue e decisi di cominciare da lì. Mi sono fermata.
Inglese, francese, tedesco. Al liceo.
Dove un professore di greco una mattina ci lesse Il cappotto di Gogol’. E toccò al russo e al ceco. All’università.
Dove scoprii che gli scrittori russi si vogliono tutti “usciti dal cappotto di Gogol’“. Non solo loro. Anche qualcuno dei loro traduttori.
Giocavo a basket. Ho dovuto smettere, a Venezia.
Andavo in bicicletta. Ho preferito smettere, a Milano.
Traduco. E confido di non dover smettere.
Concludo questa recensione con  le parole di Grossman in ultima di copertina:
In quest’epoca tremenda, un’epoca di follie commesse nel nome della gloria di Stati e nazioni o del bene universale, e in cui gli uomini non sembrano più uomini ma fremono come rami d’albero e sono come la pietra che frana e trascina con sé le altre pietre riempiendo fosse e burroni, in quest’epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello sbriciolato nella vita, non è scomparsa.
Parole che hanno più di sessant’anni, ma sembrano scritte oggi.
Vita e destino, di Vasilij Grossman (Gli Adelphi)

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