23 aprile 2021
In questi giorni segnati dalla nascita della Superlega, che in sole 24 ore è diventata Superfuga, ho letto incredibili stupidaggini e ascoltato clamorose menzogne in merito agli sport americani.
Diciamo la verità: la maggior parte di questi sport sono incomprensibili, ma non se si ha un po’ di curiosità.
Noi italiani siamo troppo abituati a “arbitro, è rigore!”, “arbitro è fuorigioco!”, “arbitro, questo fallo è da espulsione!, il cartellino giallo non basta”, “allenatore metti questo, togli quello!”, “ehi tu, passa la palla!”, “ehi tu, crossa!”. In cuor nostro ci sentiamo meglio degli allenatori più blasonati, siamo tutti commissari tecnici, anche noi si sarebbe vinto il Mondiale come Bearzot o come Lippi.
Per fortuna, il mondo dello sport non è solo un pallone che scivola su un prato verde. Ci sono anche altre discipline, non meno belle, anzi.
Discipline che, come il calcio, hanno spesso origine oltre Manica e da lì si sono trasferite negli Stati Uniti d’America. È vero, però, che l’hockey su ghiaccio nasce prima sull’erba e si racconta – con eccellenti argomentazioni – che si giocasse già 2.000 anni prima di Cristo sulle rive del Nilo. Di sicuro si giocava in Grecia nel quinto secolo a.C.
Il rugby nasce per caso grazie a uno studente di Rugby, piccolo centro nello Warwickshire. Fu William Webb Ellis, che poi sarebbe diventato presbitero anglicano, a dare il via all’idea. Durante una partita di calcio, raccolse la palla con le mani – gesto proibito – e la depositò nell’area avversaria. Era il 1823. La sua azione spinse a codificare un altro sport. Un gruppo di studenti decise di lasciare il calcio per darsi al rugby.
Appare evidente che il football americano abbia origini nel rugby, a incominciare dalla palla ovale. Così come il baseball dal cricket.
Entrambi rappresentano l’epopea americana, la conquista del territorio, che purtroppo racconta anche storie terribili ai danni dei nativi.
Il basket, invece, nasce da una meravigliosa idea del professor James Naismith, docente canadese di educazione fisica a Springfield, Massachusetts. Il professor Luther Halsey Gulick, responsabile del corso di educazione fisica, invitò Naismith studiare un nuovo gioco da proporre agli studenti durante le lezioni invernali; dunque al coperto.
Ora, come mi è capitato di scrivere altre volte, credo anche in questa rubrica, gli americani hanno mille motivi per essere detestati, ma anche qualcuna per essere amati. Fra queste ultime, certamente il contributo allo sport.
Però noi italiani, oserei dire noi europei, nutriamo una grande prevenzione per gli sport americani. Siamo troppo legati al calcio, che conosciamo fin da bambini, quando ogni tre calci d’angolo si assegnava un rigore. Accadeva così nel campetto ricavato nel cortile di casa.
In seguito, venendo in vacanza a Pesaro, mi sono innamorato del basket, uno sport troppo bello. Poi conoscendo alcuni giovani americani e canadesi i cui genitori erano militari in una base Nato, ho imparato che anche il baseball e il football erano bellissimi.
È stata la mia fortuna. Sono diventato giornalista grazie alle cronache di baseball. Allora erano in pochi a conoscere le regole del “batti e corri”. Ringrazierò il baseball finché camperò; mi ha consentito di vivere una carriera appagante che mi ha portato in giro per l’Italia e il mondo. Non avrei desiderato di più.
Ricordo, però, che anche cari amici, con i quali parlavo soprattutto di basket, mi rimproveravano per le radiocronache di baseball. “Scusaci, ma che diavolo è uno strike, cosa significa un ball, che cosa accade quando urli fuoricampo?”.
Rispondevo con poche parole: siete nati calciofili, vi siete innamorati della pallacanestro, spinti da una grande curiosità. Provate a essere curiosi anche con il baseball.
Poco tempo dopo, Stereo Pesaro 103 – avrò sempre un debito di riconoscenza verso il direttore, Claudio Conforti, che purtroppo non è più con noi – mi affidò le radiocronache delle partite degli Angels Pesaro che partecipavano al campionato italiano di football americano.
Anche lì le solite domande: “Cosa diavolo è il quarterback? e il flanker?, e il runningback? E il linebacker? Cosa fa il tight end? E cosa sono il cornerback e il safety?”.
La mia risposta era la stessa data per il baseball: siate curiosi, e vedrete quanto sia bello il football.
Una lunga premessa per raccontare che, in questi giorni, ho letto, appunto, un’infinità di stupidaggini sugli sport americani. Grandi giornalisti si sono limitati a deridere la Superlega, senza entrare nel merito di un progetto che può essere condiviso o meno, ma non può essere respinto “perché non fa parte della nostra mentalità”. È ovvio e pure giusto dire no per tanti motivi, ma rifugiarsi in un “noi non siamo americani, a noi non piace lo sport senza promozioni e retrocessioni, amiamo il merito” è assolutamente ridicolo.
Per questo motivo vi invito a leggere un libro o a vedere un film che ha per titolo Moneyball (in Italia è stato tradotto con il titolo L’arte di vincere); il film è tratto dal libro “Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game” (L’arte di vincere una sfida sleale) scritto da Michael Lewis.
A chi parla di meritocrazia nello sport, a chi dice che la Superlega avrebbe favorito solo i ricchi, racconto la storia che propone il film.
Nella stagione 2001, i New York Yankees, la squadra per cui tifo da sempre anche se ogni tanto con un po’ di pudore, visto che è la più ricca di tutta la grande lega di baseball (nel 2009 pagai , ben 840 dollari un biglietto per accedere allo Yankee Stadium, nel Bronx, e assistere a gara 6 della finale, che risultò essere la partita decisiva), ma è anche la più spendacciona, elimina dalla corsa all’epilogo del campionato americano, le World Series, gli Oakland Athletics, noti anche come A’s, la squadra della città sulla costa est della baia di San Francisco. Non solo una sconfitta che brucia, anche la perdita delle stelle della squadra che vanno a guadagnare una montagna di dollari ai Boston Red Sox (Johnny Damon) e, immenso dolore per i tifosi A’s, agli Yankees (Jason Giambi).
Per ricostruire la squadra, il direttore generale Billy Beane avrebbe bisogno di aumentare il bilancio preventivo. La proprietà gli dice no.
Poi l’occasione che cambia la storia di Beane e degli A’s. Incontra Peter Brand, un giovane fresco di laurea a Yale, una delle università più famose, che ha idee decisamente innovative su come scegliere i giocatori. Beane lo mette alla prova: Mi avresti scelto per la tua squadra? “Non prima del nono giro”, è la risposta. Il meccanismo delle scelte è quanto di più solidale possa esserci nello sport. Basket, baseball e football danno a chi ha fatto peggio la possibilità di rimediare scegliendo i giocatori che ritengono migliori. L’ultima della stagione precedente sceglie per prima. Se ha dirigenti bravi, nel giro di qualche anno può ricostruire la squadra, puntare al vertice e vincere il titolo. Tutto il contrario di quanto accade nel calcio, dove a scegliere i migliori sono le squadre più ricche, che vincono sempre. Negli Usa è impresa quasi impossibile vincere nove scudetti consecutivi. Anche questa è meritocrazia?
Ovviamente, gli altri dirigenti degli A’s, come i nostri soloni del calcio, sono a dire poco scettici sulle idee di Brand, che ha realizzato uno studio per non sbagliare le scelte che si basa sulle cosiddette OBP (quante volte un giocatore va in base, avvicinandosi quindi alla zona punto). Brand, e con lui Beane, scelgono giocatori scartati dagli osservatori di Oakland. Gli A’s non iniziano bene, ma poi vincono 20 gare consecutive. E alla fine della stagione i Boston Red Sox propongono a Beane il più ricco contratto di sempre per un direttore generale. Lui ringrazia, ma resta sulla Baia, felice però di avere dimostrato, grazie a Brand, che si può fare meglio, basta avere idee.
Il film gode di una magnifica interpretazione da parte di Brad Pitt nel ruolo di Beane e di Jonah Hill in quello di Brand. Con un investimento di 50 milioni di dollari, il film diretto da Bennett Miller ne ha guadagnati 100.
Purtroppo, il libro non è stato tradotto in italiano, ma chi conosce l’inglese non dovrebbe perdere l’opportunità di leggerlo.
Moneyball, di Michael Lewis (WW Norton & Co.)
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