Un libro alla settimana: Pazzo per l’opera

di 

27 febbraio 2021

0001PESARO – Per la seconda volta in pochi mesi un libro scritto da Alberto Mattioli è ospite della nostra rubrica. Non sappiamo quanto possa esserne contento lui, ma a noi piace scrivere delle sue opere.
La prima volta, il 20 giugno 2020, ci occupammo di Un gattolico praticante. Il giornalista modenese ama i gatti, e l’opera. Siamo sintonizzati sulla sua stessa lunghezza d’onda. Avendo un gatto in casa, Thor, e la fortuna di vivere nella città di Rossini, siamo innamorati dell’opera, in particolare di Mozart e del Cigno. E ci piace leggere di questo mondo, descritto con maestria da Mattioli, che confessa una curiosa certezza: adora i gatti e l’opera, ma se dovesse scegliere, propenderebbe per la musica. Siamo convinti che non sceglierà mai. A rafforzare il nostro pensiero, i ringraziamenti finali: Grazie infine ai miei figli baffuti Argante-Ciro e Goffredo-Salvatore: con loro, stare in casa e scrivere è un piacere.
Il nostro piacere è avere letto Pazzo per l’opera, che ha un  sottotitolo illuminante: Istruzioni per l’abuso del melodramma.
Il libro è come un libretto d’opera, una partitura: s’apre con l’ouverture, prosegue con cinque atti e quattro finali. E non mancano gli intervalli.
Atto primo: Registi, vil razza dannata. Primo intervallo: Lessico famigliare. Atto secondo:Di cantanti e altre calamità. Secondo intervallo: In un vecchio palco della Scala. Atto terzo: Medaglioni al valore. (Ma perché – commentiamo noi, vista la passione di Mattioli per Il viaggio a Reims, non gli ha preferito Medaglie incomparabili?). Questo atto è diviso in scene:  Scena I – Maria Callas. Scena II – Mirella Freni e Luciano Pavarotti. Scena III – Cecilia Bartoli. Scena IV – Edita Gruberova. Terzo intervallo: Cento spettacoli amati. Scegliere cento spettacoli della vita non vuol dire indicare “i più belli”, sarebbe impossibile – scrive Mattioli -, ma cento occasioni in cui questo peregrinare alla scoperta di cosa si nasconda dietro il prossimo sipario *ha avuto più senso. La recita perfetta non esiste in generale, men che meno all’opera dove sono in gioco troppi elementi (direzione, regia, cantanti, scene, costumi, luci, orchestra, coro, talvolta balletto) per risultare  tutti allo stesso livello, e figuriamoci tutti a un livello memorabile”.
È una scelta cronologica, quella dei “cento spettacoli della vita di Mattioli“. Si parte con il Rinaldo di Georg Friedrich Händel (Modena, 1985), si prosegue con un altro Händel,Orlando (Venezia 1985). Tanti titoli che Mattioli ha visto, per sua fortuna. Fra questi, al quinto posto, Il viaggio a Reims di Rossini ma nell’edizione di Ferrara 1992. Peccato non abbia visto la prima edizione pesarese (Auditorium Pedrotti, agosto 1984), una magia irripetibile. Di quello ammirato a Ferrara, Mattioli ha un ricordo indelebile: Tutto bellissimo.  Ma mai come in quell’occasione correva per il teatro una corrente di felicità. Capivi che sul palcoscenico si divertivano quanto e come noi. Alle soglie della sindrome di Stendhal: un rito di felicità collettiva, forse il più bello della mia vita.
Lo confesso: ho provato la stesse sensazioni quella sera d’agosto di quasi trentasette anni fa. In alto, nella seconda balconata dell’Auditorium Pedrotti, accanto a spettatori arrivati da ogni parte d’Europa, soprattutto tedeschi e austriaci, ci guardavamo stupiti, increduli di assistere a uno spettacolo così. Per mia fortuna, a Pesaro, soprattutto, ho potuto assistere a spettacoli altrettanto prossimi a trascinarmi alla sindrome di Stendhal. Fra tutti: il Guillaume Tell del ROF 1995, diretto da Gianluigi Gelmetti, regia di Pier Luigi Pizzi, e ancor più del 2013, regia di Graham Vick, sul podio Michele Mariotti, ma anche Moïse et Pharaon del ROF 1997, con la regia di Vick e la direzione di Wladimir Jurowski.
Anche Mattioli  colloca il Guillaume Tell del 14 agosto 2013 fra i “cento spettacoli della vita“. Niente altro dal Rof, che pure ama, come potrete leggere fra qualche riga e a maggiore ragione se acquisterete il libro. Però  al numero 88 spunta La Cenerentolarossiniana allestita il 28 novembre 2018 per la riapertura del Teatro Galli di Rimini, protagonista Cecilia Bartoli.
Nella classifica degli autori preferiti, trionfa Giuseppe Verdi, con dieci titoli, seguito da Richard Wagner e Händel nove, mentre Mozart si ferma a otto.
Atto IV: Corsi e ricorsi. In questo atto si scrive di Rossini, l’altro caso (dopo Handel, il barocco e il successo della musica antica; ndr) di resurrezione operistica più notevole degli ultimi anni. Mattioli scrive   che… restavano in repertorio pochissimi titoli, più buffi (il solito Barbiere di Siviglia, un po’ di Cenerentole, qualche rara Italiana in Algeri) che seri (Guglielmo Tell in italiano e tagliato nelle grandi occasioni, eccezionalmente Mosè), cantati così così e con le partiture pesantemente “migliorate” per verdizzarle. Sappiamo ancora meglio cosa è successo dall’inizio degli anni Settanta, anzi dal ’69, data della prima edizione critica del Barbiere, quella di Alberto Zedda: partiture ripulite da manomissioni, quindi in genere alleggerite, il Rossini Opera Festival che comincia a riportare in scena tutto il Rossini possibile, nuove generazioni di cantanti  che riescono a eseguire quel che sembra incantabile, la riscoperta delle opere “serie” e perfino una nuova immagine  del personaggio…
Il viaggio a Reims è sempre a portata di mano. La “dedica” di Mattioli è sublime: il titolo che si credeva perduto, riscoperto dalla Fondazione Rossini e riportato in scena dal Rossini Opera Festival nel 1984 (ci siamo, finalmente!), direttore Abbado, regia di Luca Ronconi e un cast che gli operomani snocciolano ancora come i tifosi il Zoff-Gentile-Cabrini, e dunque Gasdia-Cuberli-Ricciarelli-Valentini Terrani-Araiza-Giménez-Raimondi-Ramey-Dara-Nucci, c’è poco da aggiungere.
Quarto intervallo: Fare festival. Ovvio non manchi grande attenzione al Rof, con uno spazio dal titolo Rossini a casa sua.
La riscoperta di Rossini, quello vero, è uno dei fenomeni culturali più importanti degli ultimi decenni. Ed è stata fatta qui. Il Rof è diventato un modello
Attenzione, però, invita Mattioli:
Oggi il Rof corre un rischio: essere vittima del suo stesso successo… Dovrebbe allora fare un passo avanti. Tornare a essere il luogo della sperimentazione, invece che della celebrazione.
Non mancano i consigli. Sta al Rof recepirli o respingerli.
Resta una considerazione condivisibile, scritta da un giornalista che ama  il  Rof e Pesaro:
Dovrebbero pensare anche alla logistica. Perché non è ammissibile che, dopo quarant’anni in cui è diventato uno dei festival più importanti del mondo, il Rof non abbia ancora una sua sala e debba peregrinare fra il teatro Rossini, bello ma piccolo, e improbabili arene arrangiate un’estate per l’altra.
Non resta che sperare nell’Auditorium Scavolini che sostituirà, dopo una lunghissima e deprecabile attesa, il vecchio PalaFestival di Viale dei Partigiani, con l’augurio che accada davvero il 22 agosto con il recital per i 25 anni di Juan Diego Flórez al Festival.
Notizia curiosa, anzi sorprendente: come potrete leggere nel libro: Mattioli non ama Flórez e Pizzi, mentre adora Michele Mariotti “oggi senza se e senza ma il maggior direttore rossiniano vivente“.
Basta leggere a pagina 116, a proposito del Guillaume Tell del  14 agosto 2013: La direzione di Michele Mariotti è la migliore mai ascoltata in questa opera.
Non solo rossiniano, in verità. Quando, a pagina 122, colloca La Bohème di Puccini vista il 19 gennaio 2018  nella rappresentazione nel Teatro Comunale di Bologna, fra i “cento spettacoli della (sua) vita“, Mattioli racconta: Si può fare Bohème come non l’avessimo mai vista e ascoltata? A Bologna, Graham Vick e Michele Mariotti ci riescono, e l’esperienza è sconvolgente per un pubblico che finisce in lacrime. La produzione più importante dai tempi di Karajan e Zeffirelli.
Ci ritorna a pagina 194: Per raccontare com’è La Bohème diretta da Michele Mariotti… è meglio incominciare dalla fine. Mimì è spirata senza nemmeno un sospiro, appoggiando la testa  sulla spalla di Rodolfo, per terra in una soffitta-squatter contemporanea e miserabile dove non c’è nemmeno il letto. A differenza degli amici, lui non se n’è ancora accorto. Qui di solito tutti i Rodolfi sbraitano la loro frase parlata: “Che vuole dire / quell’andare e venire, / quel guardarmi così“. Mariotti invece chiede e ottiene dal suo, Francesco Demuro, che la dica sottovoce, come per non sbagliare Mimì. Poi la rivelazione, mentre l’orchestra, sotto, prende il colore della morte (scusatemi, non si può descrivere, bisogna ascoltarlo, però fidatevi: è così). Rodolfo capisce che ha su di sé un cadavere, si ritrae inorridito, scappa fuori. Gli altri lo seguono, dopo che Schaunard, il più buono, o forse semplicemente il più giovane, ha coperto la ragazza con il suo stesso lenzuolo… È La Bohème fresca e terribile che aspettavamo da anni… Quanto a Mariotti e alla sua orchestra in stato di grazia, sono contento che qualcuno più esperto e autorevole di me abbia scritto quel che io avevo pensato e detto in teatro: è forse la più bella Bohème dai tempi di Kleiber. Di certo, la più nuova. Il trucco è molto semplice:  partire da Puccini. Mettersi di fronte alla partitura celeberrima non solo come non la si fosse mai diretta (appunto: per Mariotti non era solo la prima Bohème, era anche il primo Puccini, a parte uno Schicchi giovanile ormai rimosso), ma anche come non la si fosse mai sentita… D’ora in avanti La Bohème sarà questa.
Se Mattioli lo consente, ci sarebbe dovuto essere spazio anche per un altro Mariotti, Gianfranco, l’ideatore-inventore del Rossini Opera Festival e, quindi, della Rossini Renaissance.
Pazzo per l’opera, di Alberto Mattioli (Garzanti, 16 euro)

Lascia una risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>