15 ottobre 2017
PESARO – I capelli sono bianchi, come quelli di quasi tutti noi che allora andavamo all’hangar di Via dei Partigiani, chi a cantare “Scavolini olé…”, chi a raccontare sulle frequenze delle emittenti cittadine le imprese dei cucinieri; chi a contare i rari tiri liberi sbagliati da Dragan Kičanović; altri a seguire i progressi esponenziali di Walter Magnifico o a sognare le “triple”, che allora erano le bombe, oggettivamente un termine bruttino, come se di bombe nel mondo non ne esplodessero troppe, di Gracis e Zampolini; e chi a incoraggiare Roosevelt Bouie o Željko Jerkov; altri ancora a esultare per i contropiede di Peppe Ponzoni o a registrare gli sbuffi in alto, verso il ciuffo, di Petar Skansi; …mi sa che sto dimenticando qualcuno…
Impossibile. Non si può dimenticare Mike Sylvester… il suo tiro, la sua anima, il suo coraggio, la sua sfrontatezza, la sua ironica perfidia, l’autoironia davvero unica. Perché – signori – Mike è uno che non guarda in faccia alcuno ed era capace di affermare che “Roosevelt Bouie finge di saltare, ma non salta neppure un foglio della Gazzetta dello Sport adagiato a terra”. Ma non guardava in faccia neppure se stesso, come potrete registrare per l’ennesima volta, oggi che, dopo tre decenni, è tornato a Pesaro.
Ieri sera ha visto – ospite d’onore – la Victoria Libertas giocare e purtroppo perdere con la Virtus Bologna, che è stata sua, ma non quanto la VL Pesaro, che per lui è ancora “la Scavolini”. E stasera sarà a cena a Villa Montani, presenti la famiglia Scavolini, ma anche Eligio Palazzetti e i suoi compagni d’un tempo.
Mike è tornato e il tempo sembra essersi fermato, anche se i nostri capelli sono bianchi.
Mike è ironico, caustico, ascoltarlo è un piacere, come nelle lunghe serate d’inverno nel suo ristorante, prima in Via Giordano Bruno, poi in Viale Trento.
Mike è tornato e il tempo sembra non essere passato, anche se alcuni di noi si danno un pizzicotto ascoltandolo raccontare che ai ragazzini che allena oggi, a Columbus, in Ohio, dove si è trasferito dalla natia Cincinnati, insegna che a fine partita bisogna stringere la mano degli avversari. Lui che più che le mani stringeva i (propri) pugni e colpiva duro, fosse in un locale di Stoccolma, dove – applaudito dai buttafuori – stese uno stupido che tentò di rubargli un gettone al tavolo da gioco, o sul parquet. E ne racconta di queste storie, oh se ne racconta…
Un’ora insieme, in una sala dell’hotel Excelsior, un 5 stelle, noblesse oblige, come quelle che faceva vedere agli avversari, perché lui era un duro, ma leale e non sopportava i prepotenti. Magari sto esagerando, ma era l’angelo custode ideale dei compagni di squadra.
“Eternamente grato agli Scavolini e a Palazzetti”
Già sabato sera, intervistato in diretta da Eurosport Player durante l’intervallo di VL Pesaro – Virtus Bologna, Mike, premiato dai compagni d’un tempo, aveva espresso giudizi sulle differenze tra la sua pallacanestro e il basket di oggi, ma anche sulla Pesaro d’allora e la Pesaro che ha ritrovato.
“Questa città è stata veramente un posto speciale per me. I miei compagni d’allora sono amici per la vita. Sarò eternamente grato a Elvino e Valter Scavolini ed Eligio Palazzetti. Loro tre hanno avuto un grande impatto nella storia della pallacanestro italiana. Mi hanno portato qui, dove sono stato molto bene per 6 anni. Pesaro è una città fantastica. La vedo profondamente cambiata, in meglio. Per quanto riguarda il campionato italiano, è di un buon livello, anche se quando ero qui si giocava con due soli stranieri e in squadra c’erano italiani di grande valore, dei veri fuoriclasse. Adesso vedo ragazzi giovani, che guadagnano meno. Forse il livello è più basso, ma io mi sono divertito a vedere la sfida tra Pesaro e Bologna”.
“Ma che bello il lungomare con la pista ciclabile”
Un giudizio che Mike ha ribadito oggi.
“Ho notato subito una grande presenza di stranieri. Quando io giocavo qui non se ne vedevano così tanti. Pesaro è diventata una città internazionale. Anche in campo. Tanta gente diversa. Mi è piaciuto moltissimo il lungomare con una bellissima pista ciclabile. Io amo pedalare e sono rimasto colpito da questa opera. E’ cambiato anche il centro, ma devo ammettere che quando ero qui pensavo soprattutto a giocare e non avevo il tempo di accorgermi delle tante cose belle che ci sono a Pesaro. Trent’anni fa la osservavo con occhi diversi”.
Un giudizio sulla partita di ieri sera?
“Giocare tre quarti senza il migliore realizzatore della squadra non è impresa facile. La Scavolini (lo dirà più volte durante l’incontro con la stampa; ndr) è più leggera della Virtus, che ha uomini tosti. Alessandro Gentile mi ha impressionato in modo pazzesco. Forse ho fatto a cazzotti anche con suo padre, ma lui è un campione. La Scavolini ha giocatori giovani; vedrete che crescerà durante la stagione. E’ rimasta in partita fino alla fine, malgrado il suo centro abbia sbagliato tre tiri facili”.
L’impatto con il grande palazzo dello sport?
“Una sorpresa pazzesca. Il vecchio impianto era un posto particolare, sempre strapieno. Sono passato davanti, ma non sono entrato. Ricordo che aveva uno spogliatoio così piccolo che dovevo cambiarmi fuori, in un piccolo vestibolo, davanti al professor Nikolic. Il nuovo è impressionante, sembra un’arena americana. Veramente un bel posto. Ovvio che bisogna vincere per avere tanta gente, perché si sa che i tifosi aumentano se la squadra fa bene”.
“In giro in centro, mi hanno riconosciuto pochi”
Il primo momento di autoironia…
“Ieri, mia moglie voleva un giornale e io sono andato in centro. Non mi ha fermato quasi nessuno. I giovani non sanno niente di me, i vecchi non s’aspettavano di vedermi. Ero solo un altro vecchio che camminava”.
Allora era un idolo incontrastato, non riusciva neppure a camminare in centro.
“Era tutta gente pagata… Tra una scazzottata e un’altra, qui sono stato sempre bene. Lo dico anche se ho vissuto una grande tragedia…”.
Mike perse il primogenito vittima di un incidente stradale mentre andava a Milano con la madre Lisa.
“Queste mie parole sono una testimonianza ulteriore del mio affetto per questa città. Gli Scavolini e Palazzetti mi hanno trattato come uno della loro famiglia”.
Mike ha appeso le scarpe al chiodo nel 1991.
“Giocavo a Marsala, in serie B, con ragazzini che in camera avevano il mio poster. Mi faceva strano. Tornato negli Stati Uniti ho allenato nella WBL, una sorta di Cba estiva, con squadre formate da giocatori alti meno di 2 metri. Si praticava un gioco velocissimo, divertente Fallita questa lega, mi hanno offerto di allenare in Canada, a Winnipeg, ma anche questa lega è fallita. Si vede che sono io che porto sfiga…”.
A proposito dell’autoironia.
“Tornato in Usa, l’azienda proprietaria della squadra dove allenavo che s’occupava di generi alimentati, mi ha offerto un posto di lavoro: per più di 20 anni sono stato direttore della logistica. Lo scorso dicembre sono andato in pensione, Ora alleno ragazzi di 12-13 anni, lo faccio con molto piacere. E’ gratificante che ragazzi mi ringrazino anche 5 anni dopo avere smesso di giocare nella mia squadra. Inoltre faccio volentieri il baby sitter”.
Che emozioni ha provato rivedendo i suoi ex compagni?
“E’ stato molto bello riabbracciarli, oggi come allora li avrò sempre nel mio cuore. Stasera sarò felice di rivedere tutti”.
Oggi Mike e Lisa vivono a Columbus.
“La capitale dell’Ohio. Ci siamo trasferiti lì per essere vicini a nostro figlio Matthew e alla sua famiglia. Allena anche lui, forse ci affronteremo durante la stagione. Ma lui è messo bene… visto che sua moglie è vice presidente di Victoria’s Secret”.
“Io focoso? Non sarò mai un pacifista”
Mike che non molla mai, Mike focoso, Mike che non si tira mai indietro…
“Io focoso? Non sono stato mai pacifista e non lo sarò mai. Non mi tiravo indietro. Dopo la morte di mio figlio, sono cambiato. Mia moglie – intelligente – andò in terapia per capire. La mia terapia era la rabbia. Ho fatto scazzottate che non avrei fatto mai, ma mio padre mi ha insegnato che se qualcuno ti spinge bisogna difendersi. Una caratteristica che ho ancora oggi”.
Ieri sera, vedendo Dallas Moore che non rientrava in campo, qualcuno ha pensato che Mike Sylvester avrebbe agito diversamente.
“Avrei sbagliato… ma ero così. E’ certo, però, che se in seguito ho subìto tanti interventi chirurgici è proprio perché non mollavo. E purtroppo – per dare la colpa a qualcuno – il parquet di Pesaro era troppo duro. Quindi oggi nel mio vocabolario non esiste la parola correre. Nella pallacanestro è cambiato tanto e si tende – giustamente – a proteggere i giocatori. Io ero diverso ed è per questo che sono andato 14 volte sotto i ferri. Allora se avevo un problema a un arto, chiedevo di fare un’iniezione per giocare. E se non ne bastava una, ne facevo due. Per non giocare, dovevo essere mezzo morto. Oggi sembra che si facciano male troppo facilmente”.
Il dottor Tommaso Scatigna, medico sociale dell’allora VL Scavolini, lo abbraccia con affetto. Mike gli mostra un dito fratturato che non gli impedì di scendere in campo.
Nei primi anni 80, con lei e Kičanović, con Magnifico e Zampolini, con Benevelli e Ponzoni, poi con Gracis e Costa, la Vuelle aveva allestito una signora squadra. Lei e “Kicia” eravate tra le migliori guardie d’Europa. Forse avete vinto troppo poco?
“Forse è vero che potevamo vincere di più, ma anche di meno. Io ho fatto la mia parte per incasinare le cose. La mia scazzottata con Caserta mi ha fatto saltare la finale scudetto”.
Mike racconta il passaggio dalla Pesaro che si salvava con gli spareggi a quella che lottava per il titolo.
“Fu la voglia dei fratelli Scavolini e del dottor Palazzetti di dire basta agli spareggi, alla lotta per non retrocedere a cambiare la storia del basket pesarese e di quello italiano. Fu allestita una squadra magnifica e le avversarie non arrivavano più a Pesaro per vincere, anzi era Pesaro che andava a vincere ovunque. Magnifico era un ragazzino, ma si vedeva che in breve sarebbe stato un campione. Per fortuna, Pesaro prese lui, non Ricci. Inoltre la squadra poteva contare sull’esperienza di Benevelli e Ponzoni”.
Mike, perché l’Italia?
“Quando finii il college a Dayton, in Ohio, venni scelto sia dai Detroit Pistons di basket che dai Chicago Cubs di baseball, ma io amavo la pallacanestro. Arrivai in Italia perché il signor Cesare Rubini (coach manager dell’Olimpia Milano) cercava un giocatore americano per rimpiazzare Brosterhous. Esordii nel torneo di Rapallo, dove sono stato qualche giorno fa. L’Olimpia scoprì che, grazie all’origine dei miei – mio nonno era di Bari – avrei potuto prendere la cittadinanza italiana. Così mi sottoposi a tutta la trafila – tre anni – per diventarlo. Dissi a mia moglie, ma allora non eravamo sposati, che mi piaceva tutto dell’Italia: i posti, il cibo, la gente. In attesa di diventare italiano, avrei imparato la lingua. Al quarto anno arrivò Mike D’Antoni. Io ero nella Nazionale che vinse la medaglia d’argento ai Giochi Olimpici di Mosca. Fu un momento fantastico. Sul podio mi sentivo più italiano che mai”.
“Stavo per tornare in Italia, volevo allenare”
Ha pensato mai di tornare in Italia?
“Sì, stavo per fare il corso allenatori a Bormio. Poi è arrivata mia nipotina e Lisa mi ha detto che se pensavo d’andare via m’avrebbe ammazzato. Ma si vede che la mia famiglia ha tutte le fortune del mondo…, visto che abbiamo perso anche la nipotina”.
Lei si sente in grado di allenare in Italia?
“Credo che avrei successo. Conosco bene la pallacanestro, so insegnarla… Un giorno, chissà…”
Lei era un combattente nato. Quando uno come lei smette, come fa a gestire l’adrenalina, a dimenticare gli allenamenti quotidiani, le trasferte, le partite?
“In verità, avevo esaurito già l’adrenalina, l’avevo lasciata in campo, dove davo praticamente tutto. Non è che puoi fare tutta la vita a cazzotti. Provo molto piacere ad allenare e alleno per rimanere attaccato al basket. Ho studiato molto il gioco. Ai ragazzi ho insegnato che si gioca per vincere, ma non è determinante, che è doveroso imparare anche a perdere con classe per poi dare la mano agli avversari”. Sembra incredibile detto da chi le mani le usava per menare, oltre che per fare canestro”.
Mancava da tempo, ha fatto un bel viaggio.
“Prima alle Cinque Terre, poi in Toscana, a Bologna con la famiglia Ferracini, quindi a Pesaro; domani si torna a casa”.
“Magnifico mi chiamava il fischiometro”
Le storie curiose di Mike.
“Walter Magnifico mi chiamava il “fischiometro”. Allora, in trasferta, si giocava in campi caldissimi, dove si rischiava d’essere aggrediti. Io avevo bisogno di un riscaldamento particolare per non risentire dei tanti guai fisici, così scendevo in campo per primo. Dai fischi che ricevevo, i compagni di squadra capivano quanto pubblico c’era e l’atmosfera che si sarebbe trovata. Talvolta, la palla che tiravo colpiva il ferro, usciva fuori e finiva in tribuna. Qualcuno teneva la palla e non voleva restituirmela. Io andavo a riprenderla…”
Incredibile. Ma quella che sta per raccontarci è davvero unica.
“La più grossa l’ho fatta a Saragozza, in Spagna, dove giocavamo con la Nazionale. Era un campo terribile. In panchina Gamba e Rubini. Io ero in campo quando arrivò sul parquet un barattolo di Coca Cola, che spruzzava bollicine in ogni angolo. Raccolsi il barattolo e mi girai verso la tribuna da dove era stato lanciato. Rubini urlò: “No, Mike, no!”. Ma era già partito. Ero un lanciatore di baseball, avevo una buona mano. Colpii uno spettatore, lo centrai in piena fronte, perdeva tanto sangue. Era il sindaco di Saragozza. Rubini passò almeno tre ore con lui per convincerlo a non denunciarmi”.
Ha contatti con Mike D’Antoni?
“Non lo vedo dal 1991, ma andrò a trovarlo a Cleveland quando i suoi Rockets saranno ospiti dei Cavs”.
“Niente Nba, meglio l’Eurolega, perfetta per me”
Segue la Nba?
“No, preferisco la Ncaa, il campionato di college, e l’Eurolega. Quest’ultima sarebbe stata perfetta per me. E’ un basket fantastico, il più maschio di tutto il mondo, fatto apposta per i duri. Si gioca senza paura dei contatti fisici e sono convinto che i più bravi non abbiano bisogno di andare nella Nba”.
“Gallinari in Nba? Ho pianto di gioia”
A proposito: sorpreso che ci sia un Gallinari che fa… canestro?
“Danilo giocava nel parco con mio figlio. Quando è stato scelto, prima scelta assoluta, ho pianto di gioia. Ho detto a Vittorio che ero orgoglioso di lui e di Danilo. Vittorio non tirava bene, ma era un vincente, un difensore nato, anche se sporco, addirittura più sporco di Meneghin”.
La rissa più famosa della storia è quella tra lei e la Juve Caserta. Ha avuto modo di incontrare Mike Davis?
“Purtroppo, io sono sfigato. Le immagini della tv mostrano i miei cazzotti, ma non che fu Davis a colpire per primo Gianluca Delmonte. Ho rivisto Mike in una situazione curiosa: Indiana, college allenato dal mitico Bobby Knight, era interessata a mio figlio. Quando entrai nella sede, rimasi sorpreso: Davis era il vice di Knight. Quando ci riconoscemmo, una risata e un abbraccio”.
“Oscar Schmidt mi ha dato dello scemo”
Una storia curiosa riguarda Oscar Schmidt, il campione brasiliano preso a pugni da Sylvester.
“Quando Oscar fu premiato dalla Hall of Fame del basket, era presente un mio amico che avvicinò il brasiliano e conoscendo la storia gli disse: Oscar, le porto i saluti di un amico. E chi è questo amico, chiese lui? Mike Sylvester. Oscar s’arrabbio e gli disse più volte: il tuo amico è scemo, ma proprio scemo”.
“I tifosi pesaresi di oggi? Tranquilli, educati”
Come ha rivisto i tifosi pesaresi?
“Tranquilli, educati. Da quello che leggo, basta un rutto per essere multati. Fosse stato così ai miei tempi, ogni società avrebbe rischiato la bancarotta. Una volta, quando arrivammo a giocare a Pesaro che schierava Joe Pace, io e D’Antoni eravamo presi di mira dai tifosi. Ci lanciarono una scarpa. Quella sera, con il freddo che faceva, un tifoso sarebbe tornato a casa con una sola scarpa. Ero molto odiato dai tifosi pesaresi. Tre mesi dopo firmai per la Scavolini. Arrivare qui ed essere accolto con affetto dalla famiglia Scavolini, da Palazzetti e dai tifosi, fu molto pericoloso per il mio carattere. Per fare vincere gente così, potevo anche ammazzare. Era un motivo per dare il massimo, sempre. Se volete, facevo una cosa sciocca: giocavo a basket e potevo sostenere la mia famiglia. Anche nei momenti più difficili, ho pensato sempre a dare il massimo, a essere un professionista perfetto per ripagare chi mi pagava bene. Io non avevo una grande abilità, per essere competitivo dovevo darmi da fare. Però ero un buon difensore e ci tenevo tantissimo, fin dal college, a difendere sull’avversario migliore, che poteva anche essere Bob Morse (uno dei più grandi di sempre che abbiamo giocato in Italia; ndr). Kičanović era un attaccante mai visto, ma io facevo la mia parte difendendo”.
Il suo tiro era strano: hanno provato a cambiarglielo?
“Quando un movimento è memorizzato, è difficile cambiarlo. Anche se tecnicamente sbagliato, io lo allenavo al meglio per essere efficace. Oggi, se un mio ragazzo mi chiede come realizzare, io gli rispondo così: anche con il culo, basta che fai canestro”.
Il racconto prosegue, dalla trasferta in Turchia con la Virtus, quando mise fuorigioco tre avversari, in particolare uno che colpiva duro “Sugar” Richardson, alle risse nello spogliatoio di Piazza Azzarita, quando le due squadre avversarie avevano un’unica doccia. Così, per evitare altri guai, il Comune impose di realizzare una doccia per ogni spogliatoio. Storie di Mike, cose da Mike, che però riguardano altre realtà che anche stamattina sono sembrate così lontane dal Sylvester “pesarese” nella storia e nel cuore. Un giocatore unico, un personaggio irripetibile. E il pensiero è andato obbligatoriamente a una domenica pomeriggio, quando Mike volle scendere in campo malgrado la tragedia che lo aveva colpito. Cose mai viste, cose da film. E le lacrime scorrono come allora.
Complimenti per l’articolo…..assolutamente meraviglioso!!