29 giugno 2017
Dopo aver conosciuto Bartolomeo di Giovanni Corradini, alias “Frà Carnevale” (si veda l’articolo pubblicato il 3 maggio scorso), un altro interprete della pittura rinascimentale urbinate è stato Timoteo Viti che merita altresì di essere rivisitato, in quanto ebbe un ruolo vitale nella vita sociale ed artistica della città di Urbino dove nacque nel 1469. Figlio di Bartolomeo di Pietro Viti e di Calliope (figlia del pittore tardogotico Antonio Alberti) pittore, prolifico disegnatore (notevole lo schizzo di Giuliano de’Medici alla corte di Urbino), fu anche scenografo, artigiano e ritrattista, perfezionandosi nell’arte a Bologna presso la bottega di Francesco Raibolini detto il Francia, suo maestro, e subì molto l’influenza di Perugino e di Raffaello il quale, quest’ultimo, nei primi anni della sua formazione guardò a Viti “il cui temperamento era affine”.
Pittore, senza alcun dubbio, più importante presente con continuità a Urbino nel corso dei primi due decenni del Cinquecento fino alla morte avvenuta nel 1523, “fermò l’animo ed il proposito di non volere più andare attorno”, contrariamente a quanto invece fecero Girolamo Genga, suo compagno di lavoro, che girava tra le città e le corti dell’Italia centro-settentrionale e Raffaello (più giovane di Viti di quattordici anni) in quelle fiorentine e romane. Il Vasari lo definì “allegro e di natura gioconda e festevole, destro nella persona, e nei motti e ragionamenti arguto e acutissimo”.
Robert G. La France, nei Quaderni di “Notizie da Palazzo Albani”, Timoteo Viti a cura di Bonita Cleri, esaminando l’autoritratto conservato al Whashington County Museum of Fine Artsdi Hagerstown (nello stato americano del Maryland) ha descritto accuratamente, al contrario di Burton Fredericksen e Federico Zeri che hanno dubitato che si trattasse del ritratto di Viti, gli abiti indossati dall’autore che sottolineano la sua posizione di illustre lignaggio, con l’indicazione di uno stemma che assurge a scudo araldico di famiglia patrizia. Tra l’altro con un sistema acrofonico greco (simboli numerici) si è stabilita l’età certa del Viti, qui ritratto, che corrisponde a quella di 36 anni, distinguibili nelle lettere greche riprodotte nella tavoletta, ricalcando quindi perfettamente la figura del nobile “con contegno perfetto” di Baldassare Castiglione nel “Il Cortegiano”, in virtù del fatto che Viti era conoscitore di greco e latino così come musicista e cantore (qualità apprezzate nel libro).
Ma venendo alle opere esposte nella Galleria Nazionale delle Marche ad Urbino, in origine la Castellare (l’Appartamento della Duchessa, al piano primo della Sala 24), e comprendere meglio il linguaggio artistico del maestro che, nel 1505 era alla corte del duca Guidobaldo III° duca di Urbino (figlio di Federico da Montefeltro e Battista Sforza), e che ritrasse assieme al vescovo Arrivabene, committente (postumo) della tempera su tavola esposta a Palazzo Ducale, ne I santi Tommaso Beckett e Martino fra Giovan Pietro Arrivabene e Guidubaldo, da cui si chiosa l’influsso del Francia e della vulgata pinturicchiesca, unendo classicismi bolognesi e seguiti umbro marchigiani, con due ritratti genuflessi nella parte inferiore corrispondenti al vescovo avvolto in un’ampia cappa di colore rosa, ma che fu effigiato a memoria in quanto già deceduto, contrariamente al duca, dipinto dal vero.
Sempre nella medesima sala, sul lato destro, viene ritratta una Santa Maria Maddalena, con lunghi e fluenti capelli biondi che arrivano fino ai piedi, e che sotto il peso del ferrarese Lorenzo Costa, risente di richiami, accostamenti morbidi e distesi raggiungendo un equilibrio di pittura gradevole, e se l’evidenza di certi dettagli e la forza di certe ombre fanno pensare a Pietro di Lorenzo, resta pur sempre che il richiamo più diretto è al leonardismo congelato di Lorenzo di Credi. Purtroppo la pala Trinità fra S. Girolamo e il Beato Colombini, (al momento non presente nella sala 24 perché ritirato per restauro), databile verso la fine del secondo decennio del Cinquecento, sembra qui aver trovato alcuni spunti dello stile e della composizione nella pittura bolognese del Raibolini, che Timoteo frequentò nel suo studio tra il 1490 e il 1495, instaurando con lui un ottimo rapporto che il Francia citò allorché Viti lasciò Bologna il 4 aprile 1495: “Partito il mio caro Timoteo, che Dio le dia ogni bene, e fortuna”.
Ma è la Vetrata dipinta, situata nel vestibolo della Duchessa (dopo la Sala delle Veglie) che merita di essere contemplata: l’unica vetrata rimasta in città di inizio Cinquecento che raffigura una grande finestra quadrangolare a doppia anta, dove nella parte superiore, incorniciati da un fregio a grottesche (tipica decorazione pittorica) sono colorati l’Arcangelo Gabriele e la Vergine Maria con il capo chinato, che incrocia le mani al petto mentre su di lei scende la colomba dello Spirito Santo; nella parte inferiore, invece, due putti sorreggono ghirlande con frutti e foglie, con al centro lo stemma della famiglia Guidalotti. Proprio di fronte la Vetrata (e di fianco a una porta in legno chiusa, ospitante una rampa elicoidale) c’è uno splendido affresco stacco a massello e restauro, proveniente dal deposito della Confraternita del Corpus Domini che ritrae una splendida Madonna in trono con bambino, dalle cui figure scaturiscono vivaci, limpidi e luminosi i colori cromatici che della provenienza vitiana non si era certi, ma che prevalse la gamma dei colori amati da Timoteo a suggellare la sua firma.
Fin qui abbiamo menzionato Timoteo Viti nella città di Urbino, ma non dimentichiamoci che le sue opere sono anche altrove e all’estero, ed è consigliabile almeno recarsi per una fugace visita a Cagli (Provincia di Pesaro-Urbino) distante 30 km da Urbino, per visitare la sua più bella e importante opera quale il Noli me tangere (locuzione latina pronunciata da Gesù a Maria Maddalena subito dopo la resurrezione), nella chiesa di Sant’Angelo minore, che rappresenta la scena evangelica tratta da Giovanni e che si presenta con un cromatismo intenso e ricco di contrasti, così come pure è da vedere l’Annunciazione dipinta ad affresco nella Chiesa di San Domenico, sempre a Cagli.
La sua notorietà è dovuta al fatto che Viti ha portato, tra gli artisti urbinati, quella fresca e limpida vena artistica che apprese sin da giovane nel soggiorno bolognese del Francia, e che portava una nota di tenerezza e serenità ad illuminare i volti delle sue figure femminili. Ma certamente un artista come lui, contemporaneo e amico di Santi, Genga, Raffaello, Perugino e Pinturicchio se poteva bastare ad appagare il palato facile della sua clientela di provincia, non è stato sufficiente ad includerlo nella pietra miliare di quei nomi veramente influenti dell’arte italiana in quegli anni.
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