di Redazione
27 luglio 2015
Un morso da 500 milioni di euro, a tanto ammonta lo sconto che i committenti, pubblici e privati, pretendono ogni anno sul valore dei buoni pasto immessi sul mercato. “Il costo di questo gigantesco buco – dichiara Aldo Cursano, vicepresidente vicario Fipe-Confcommercio – è stato finora coperto sacrificando i margini degli esercenti fino ad azzerarli. Ma ora il sistema non è più sostenibile e diciamo che bisogna cambiare registro perché non siamo disposti a scaricare i costi su lavoratori e consumatori in genere alzando i prezzi o abbassando la qualità del servizio”. – Questa è la denuncia di Fipe – Federazione Italiana Pubblici Esercizi. L’ultima gara indetta da Consip per i buoni pasto della pubblica amministrazione è stata aggiudicata con sconti fino al 22% sul valore dell’appalto pari a un miliardo di euro.
Il risultato è che in circolazione ci saranno buoni pasto che valgono un miliardo di euro ma sono stati pagati circa 800 milioni dalla pubblica amministrazione. Chi paga i 200 milioni di euro di differenza? Di fatto gli esercenti che su ogni buono incassato si vedranno applicare la commissione necessaria a coprire la differenza. Oggi questa commissione, comprensiva di aggravi ingiustificati, arriva al 18%. Senza considerare, poi, i costi di gestione fatti di conteggi, fatturazione, spedizione, ecc. “Non è questa la spending review che ci aspettiamo dallo Stato. Devono tagliare sprechi ed inefficienze – prosegue Cursano – non risparmiare facendo pagare il conto ad imprese e famiglie”. “Chiediamo a Governo e Parlamento di intervenire per sottrarre un mercato speciale come quello dei buoni pasto a gare che non garantiscono il valore del buono lungo tutta la filiera. Ci aspettiamo che lo Stato, sia attraverso Consip che attraverso l’Antitrust, assuma comportamenti virtuosi per tutelare la sostenibilità delle imprese e i diritti dei consumatori” continua Aldo Cursano. Il mercato dei buoni pasto, secondo Fipe, deve essere fondato su tre principi: 1. Integrità del valore lungo tutta la filiera, eliminando ribassi insostenibili coperti con l’imposizione di commissioni e servizi aggiuntivi a carico degli esercenti 2. Corretto uso del buono pasto secondo quanto previsto dalle norme. Il buono pasto non può avere la stessa fungibilità del denaro e dunque va utilizzato esclusivamente per l’acquisto di prodotti alimentari pronti per il consumo immediato e per servizi di ristorazione nel rispetto del divieto di cumulabilità 3. POS unico in grado di “leggere” tutti i buoni pasto di qualunque emettitore per evitare barriere che rischiano di trasformarsi in ulteriori e maggiori costi per esercenti e consumatori. “Speravamo che col passaggio al buono elettronico si eliminassero aggravi di costi e di adempimenti burocratici. L’effetto, invece, pare essere esattamente quello contrario” prosegue Aldo Cursano, che spiega “Oggi i costi del buono elettronico sono fuori da ogni logica di mercato e sono scaricati interamente sull’esercente: basti dire che per ogni singola transazione si chiede fino a 0,48 euro a cui si aggiungono i costi di installazione del Pos ed il canone di noleggio. Inoltre, rischiamo di dover gestire 4-5 POS, uno per ciascun emettitore. Così non va bene, bisogna riscrivere le regole, oppure salta il sistema”
Oggi la situazione dei Buoni Pasto – secondo Fipe Confcommercio – prevede che i grandi enti pubblici e le grandi aziende private, banche comprese, mettono nelle tasche dei loro dipendenti buoni pasto del valore di 3 miliardi e 200 milioni di euro. In questo modo bar, ristoranti e negozi alimentari vendono cibo e bevande per 3 miliardi e 200 milioni ma quando manderanno all’incasso i buoni spesi riceveranno 500 milioni di euro di meno, proprio quelli che nel frattempo sono tornati sui conti correnti degli enti e delle aziende per mezzo di regole e di gare d’appalto inique.
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