La nostra storia attraverso Pasqualon: Cegh, zop, matt

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28 marzo 2012

Cegh, zop, matt…

 

Pasqualon

Odoardo Giansanti, in arte Pasqualon. Immagine tratta dal web

 

di Stefano Giampaoli

 

 

A 28 anni Pasqualon sta diventando cieco. Nell’inverno del 1880 va, a piedi, al Sant’Orsola di Bologna per farsi curare; corre il rischio di morire assiderato. Nel XIX secolo l’oculistica fece passi decisivi e, sembra, che Odoardo Giansanti venne visitato da un luminare ma non si hanno riscontri documentari. Quando sta per perdere uno dei beni più preziosi, la vista, le sue condizioni sono quelle di un giovane miserabile, senza famiglia, senza lavoro. Viene preso dalla malinconia, così veniva definita allora la depressione. L’unico ricovero per uno nelle sue condizioni era il manicomio; nel San Benedetto di Pesaro venivano rinchiusi i folli, i sifilitici, i malati cronici della pelle, semplici esauriti oppure chi era diventato scomodo o scandaloso per la famiglia e la società. Eppure, in questo ambiente da film horror, Odoardo trova una via di fuga: la poesia. Lo storico pesarese Riccardo Paolo Uguccioni riferisce: “In sei distinti ricoveri, trascorrerà in manicomio più di diciotto anni della sua vita, a riprova del ricorrente sbilanciarsi della sua psiche, solo apparentemente incline al gioco e alla burla”. Durante una breve uscita dal primo internamento, Odoardo si ferisce ad una gamba mentre passeggia per le banchine del porto; rimarrà zoppo per tutta la vita. Dopo il primo ricovero, comunque, è un uomo diverso. Ha la consapevolezza che la poesia può farlo uscire dal vortice impietoso che la vita gli ha riservato. Ora è Pasqualon, cantore dialettale, che i pesaresi amano ascoltare per le strade e le piazze della città. Si guadagna da vivere vendendo per pochi soldi i testi delle sue poesie pubblicati su “fogli volanti”. Con tanta sottile ironia, dirà di se stesso di essere “cegh, zop e matt”. Nella presentazione dell’edizione 1887 de Le Pasqualoneidi, sentì l’esigenza di rivolgersi a chi lo leggeva; lo fece con un testo in prosa intitolata “Ma i mi lettor”. La lettera comincia così: “Vlend secundè el desideri d’ na mùcchia d’ gent ch’i à cumpred le mi canzon d’aveli raccolt in t’un libre, finalment a jò decis d’ fel, ed eccle maché” (Volendo assecondare il desiderio di un mucchio di gente che ha comprato le mie canzoni per raccoglierle in un libro, finalmente ho deciso di farlo, ed eccolo qui). Occorre dire che il pesarese di Pasqualon non sempre coincide col dialetto attuale. La grammatica pesarese, poi, si caratterizza per la caduta delle vocali atone e per l’abbondanza degli accenti sulle altre. Un esempio: mél (il melo) e mèl (il male). Pertanto nelle traduzioni, come forse avrebbe detto il Poeta: perdunèm o pòpol mia!

(2 – segue)

 

 

 

 

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