di Redazione
21 marzo 2012
Odoardo Giansanti, Pasqualon, è stato un personaggio affascinante. La sua narrazione ci fa scoprire, come in un film, le vicende umane dei pesaresi a cavallo fra la fine del 1800 e gli inizi del ‘900. A settembre di quest’anno celebreremo il nostro poeta dialettale; saranno trascorsi 160 anni dalla sua nascita (18/09/1852) ed 80 anni dalla sua morte (21/09/1932). Per festeggiare l’evento proponiamo ai lettori una rubrica a cura di Stefano Giampaoli, un’analisi condotta attraverso le pagine della raccolta completa di “Poesie di Odoardo Giansanti, Pasqualon”, l’edizione curata da Sanzio Balducci edita nel 1996 dalla Tipografia Nobili di Pesaro. L’idea è quella di sintetizzare, in lingua, il testo delle sue poesie in vernacolo, a mo di racconto.
Questa è la prima puntata.
LA NOSTRA STORIA ATTRAVERSO PASQUALON
a cura di Stefano Giampaoli
Pasqualon, il nostro illustre concittadino, era ricco solo del proprio umorismo. Con voce tonante declamava versi dialettali per le strade di Pesaro. Cominciò la sua attività poetica a 34 anni, era il 1886. Per dirla con Riccardo Paolo Uguccioni, Odoardo scopre una risorsa finora sconosciuta anche a lui stesso: la capacità straordinaria di pensare e inanellare centinaia di versi in vernacolo, che poi ricorda e recita con una memoria prodigiosa. Prima di tutto: da dove nasce il soprannome di Pasqualon? Odoardo Giansanti lo racconta nella prefazione-intervista alle Pasqualonejdi del 1911. Ricorda come non sapesse neppure dove stesse di casa la poesia… L’occasione di conoscerla gli fu data quando, ricoverato per la prima volta in manicomio, si innamorò di una favola narrata da un ammalato, un contadino, detto Pasqualone. Si sentì fortemente tentato di porre in versi qualcosa di simile e racconta: “Vi riuscii col Dialogo appunto di Pasqualone e il suo Padrone (…) Da quel momento anch’io fui poeta; e il popolino volle ribattezzarmi col soprannome di Pasqualon”.
Odoardo Giansanti, nei suoi primi 34 anni, aveva già conosciuto tutte le miserie che può dare la vita; per questo fu in grado di capire quello che c’è in ciascuno di noi, di contraddittorio e, a volte, di ridicolo. Fu un umile e generoso lettore dei fatti dell’esistenza umana. A dieci anni gli muore la madre, il padre si risposa ma, nella nuova famiglia, Odoardo si sente un intruso; il suo disagio di figliastro adolescente termina quando, una sera del 1873, rincasa e scopre che i suoi sono partiti per Roma senza avvertirlo. Raggiunge il padre che gli riserva un’accoglienza ostile. Rimarrà a Roma per quasi 5 anni conducendo una vita di stenti; sarà spazzino, muratore e bracciante ma verrà sempre perseguitato dalla polizia come ozioso e vagabondo. Per sopravvivere, nel 1874, Odoardo entra perfino nella congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione, come novizio, con il nome di frate Ilario. Soffre di incipienti problemi agli occhi. Nel 1878 riceve, dalla pubblica sicurezza, un foglio di via che lo rimanda a Pesaro dove resterà per sempre.
(1 – continua)
Lascia una risposta