Garanzie nelle comunicazioni (quali?)

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16 giugno 2013

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) viene istituita con legge n. 249 del 31 luglio 1997, meglio nota come Legge Maccanico (dal nome del suo promotore, l’allora ministro delle Poste e telecomunicazioni Antonio Maccanico).

Con tale norma si cercava di migliorare la disciplina riguardante la comunicazione televisiva, richiamandosi ai dettami della legge 223/1990 sul pluralismo, e contemporaneamente stabilendo dei limiti antitrust da rispettare, dando vita a un nuovo organo competente in materia – l’AGCOM, appunto – volto a sostituire il vecchio garante per la radiodiffusione e l’editoria.

L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni comprende quattro organi: il presidente, la commissione per le infrastrutture e le reti, la commissione per i servizi e i prodotti, e il consiglio. Questi organi hanno il compito di assicurare la corretta competizione degli operatori sul mercato e di tutelare i consumi di libertà fondamentali dei cittadini; ovviamente, ciò deve avvenire con delle garanzie sia verso gli operatori che verso gli utenti.

I membri dell’Autorità, chiamati commissari, sono quattro (originariamente erano otto: il dimezzamento è stato deciso col decreto Salva Italia emanato dal governo Monti): due vengono eletti dalla Camera dei deputati e due dal Senato, ripartiti in maniera proporzionale tra maggioranza e opposizione. Il presidente, invece, è indicato direttamente dal premier, d’intesa col ministro dello Sviluppo economico. Tutte le nomine, per diventare effettive, devono necessariamente passare al vaglio del capo dello Stato.

Indipendenza e autonomia sono gli elementi costitutivi dell’Autorità. Analizzando la sua composizione viene però da chiedersi: è davvero indipendente, dal punto di vista politico ed economico, un organo i cui membri sono scelti da parlamento e governo?

Sembrerebbe di no. Eppure, a tal proposito, l’Unione europea si è più volte espressa in maniera chiara, sottolineando come le autorità che regolamentano i settori della telefonia, di Internet e delle radiotelevisioni debbano essere assolutamente indipendenti dal potere esecutivo e dalla politica in generale.

Proprio sulla base di queste parole, nel novembre del 2010, al fine di assegnare maggiore autonomia all’AGCOM, Futuro e libertà, in parlamento, aveva proposto degli emendamenti al DDL che recepiva le direttive europee sulle authority nazionali delle telecomunicazioni. Ma essi non furono nemmeno discussi; furono anzi immediatamente bocciati dall’allora ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani.

Andando ad analizzarne il contenuto, si può evincere il perché. Ad esempio, in uno degli emendamenti, si affermava, senza giri di parole, che doveva essere «garantito il rafforzamento dell’indipendenza dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, anche garantendo che i componenti dell’organo collegiale, nominati tra persone di notoria indipendenza, non sollecitino né accettino istruzioni da alcun altro organismo nell’esercizio dei propri compiti, nonché prevedendo che questi possano essere sollevati dall’incarico solo se non rispettino le condizioni prescritte per l’esercizio delle loro funzioni».

È chiaro come la nomina di persone di “notoria indipendenza”, finalizzata a evitare interferenze esterne, sia mal vista da buona parte dell’emiciclo parlamentare. Anche perché la lottizzazione politica, all’interno dell’AGCOM, appare evidente. Basti vedere le polemiche suscitate nel giugno scorso, quando, in parlamento, PD, PDL e Terzo polo procedettero alla nomina dei nuovi commissari – Maurizio Decina e Francesco Posteraro in quota PD-UDC e Antonio Preto e Antonio Martusciello per il PDL – ignorando decine e decine di curricula inviati dalla società civile, professori non molto noti sponsorizzati dal web (Stefano Quintarelli in primis: per lui solo 15 voti) e addirittura giuristi importanti come Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida e Stefano Rodotà, proposti dall’Associazione Articolo21.

E nella precedente amministrazione dell’Autorità le cose non stavano certo meglio. Lorenzo Galeazzi sul ilfattoquotidiano.it ha così tracciato i profili dei precedenti commissari: «Enzo Savarese, ex deputato di AN, già dirigente di Alitalia, in quota PDL; Stefano Mannoni, costituzionalista e collaboratore de Il Foglio di Giuliano Ferrara, espressione della Lega Nord; Gianluigi Magri, specialista di medicina interna, uomo dell’UDC; Roberto Napoli, ex senatore dell’UDEUR; Nicola D’Angelo, magistrato amministrativo, già capo di gabinetto del ministro Maccanico e poi capo dell’ufficio legislativo di Fassino alla Giustizia, PD (area ex DS); Michele Lauria, ex senatore della Margherita; Sebastiano Sortino, direttore generale della Federazione editori di giornali, considerato un prodiano».

Non è finita. A essi va aggiunto Antonio Martusciello, unico rieletto nel 2012, fondatore della sezione napoletana di Forza Italia, ex dipendente del gruppo Fininvest, nonché viceministro dei Beni culturali nel secondo governo Berlusconi; subentrato a Giancarlo Innocenzi, già dirigente Mediaset, già deputato di Forza Italia e già sottosegretario alle Comunicazioni, costretto alle dimissioni nel giugno del 2010 in seguito all’apertura dell’indagine della procura di Trani sulle presunte pressioni ricevute dall’ex premier Berlusconi per la chiusura di Annozero (indagine poi trasferita a Roma, dove sarà chiesta l’archiviazione).

Se poi aggiungiamo anche che nella prima consiliatura, tra i commissari, figuravano «un uomo vicinissimo a Mediaset, come il superconsulente Antonio Pilati e un vecchio amico del Cavaliere come Alfredo Meocci» (Marco Travaglio, Caso Europa 7, in Micromega, febbraio 2008), torna preponderante il quesito posto all’inizio di questo scritto, ovvero: è normale che un’autorità, indipendente per statuto, abbia, al suo interno, membri nominati da governi e parlamenti di turno, per lo più in un paese pieno di conflitti di interesse come il nostro?

*tratto da “Il Calendario del Popolo” n. 758 (Sandro Teti Editore), in libreria.

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