8 febbraio 2012
PESARO – Noi e la Nba, il viaggio che racconta il rapporto tra Pesaro e il campionato professionistico americano, è giunto alla quarta tappa. La precedente si era fermata a Milwaukee, nel Wisconsin. Dallo stato dei Grandi Laghi alla nuova fermata, il viaggio è breve. Siamo in Minnesota, anzi a Minneapolis. Non a caso, qui – dove i laghi non mancano – erano di casa i Lakers prima del trasferimento a Los Angeles.
MINNESOTA TIMBERWOLVES
Intanto il rapporto è quello… mancato. Purtroppo. Dovete sapere, ma da appassionati di basket e della Nba lo sapete già, che nell’ambito degli scambi tra la lega nordamericana e la Fiba, in particolare l’Europa, nel precampionato del 2001, a ottobre, era stata programmata una tournée dei Timberwolves che avrebbero giocato anche a Pesaro all’Adriatic Arena. Sarebbe stata una grande festa, anche per il ritorno di Greg Ballard, vice allenatore della franchigia di Minneapolis, protagonista del primo scudetto della Scavolini soprattutto con i consigli al suo sostituto Darren Daye. Purtroppo, l’attentato dell’11 settembre, l’attacco alle Twin Towers, indusse il commissioner David Stern a cancellare tutte le partite all’estero. Greg espresse grande rammarico.
Oggi l’allenatore dei Timberwolves è Rick Adelman, passato alla storia per non avere capito le qualità di Dražen Petrović quando i due erano ai Portland Trail Blazers. Pensate che il Mozart del basket non trovava posto neppure nei dieci e così – mi ha raccontato suo fratello Aza – come da regola delle squadre Nba non poteva neppure stare seduto in panchina. Chi non era fra i dieci era obbligato a seguire i compagni restando in piedi. Che genio! Per fortuna, i dolori di Dražen sarebbe stati leniti dal trasferimento ai Nets, prossima tappa del nostro viaggio.
NEW JERSEY NETS
Ecco, il primo collegamento tra Pesaro e i Nets, le retine del New Jersey, è proprio Dražen Petrović, fratello di uno dei giocatori più amati dai tifosi, e soprattutto dalle tifose, della Scavolini.
Il secondo collegamento è un biancorosso… mancato: Mario Elie. Di origini haitiane, ma nato a New York, Mario fu offerto alla Scavolini quando Alberto Bucci rinunciò al mito, a Darren Daye. Elie era reduce da stagioni trascorse in Irlanda, Argentina e Portogallo. Forse non convinse per questi trascorsi, anche se Bucci mi spiegò che era basso (1,96). La Scavolini scelse Henry James, tagliato dopo poche settimane. Era un tiratore assolutamente micidiale, ma non sapeva fare altro. Dagli Usa me lo presentarono così: “Se il basket si giocasse da fermi, sarebbe meglio di Michael Jordan. Poiché è un sport di movimento, James non sa giocare”. Al contrario, un amico americano mi spiegò che Mario Elie sarebbe stato fantastico. “Rifiutato” da Pesaro, ha saputo costruire una carriera incredibile nella Nba, tanto da vincere – da protagonista – due titoli con i Rockets, realizzando incredibili triple. Una – contro i Phoenix Suns – che diede la vittoria ai Rockets in gara 7 nella semifinale di Conference, è chiamata dai tifosi texani “Il bacio della morte”. Lo chiamavano SuperMario. Oggi è vice allenatore dei Nets.
NEW ORLEANS HORNETS
Marco Belinelli, bolognese di San Giovanni in Persiceto, avversario negli anni recenti dei biancorossi pesaresi, è l’unico legame con la franchigia della Louisiana.
NEW YORK KNICKS
Qui la storia è più ricca, perché include la prima… quasi vittoria di una squadra non americana contro una della Nba. Accade la sera dell’11 ottobre 1990, sul parquet del Palau Sant Jordi di Barcellona, McDonald’s Open. Il giorno dopo si festeggia l’anniversario della scoperta dell’America. Per poco, gli Stati Uniti non scoprono… Pesaro. Ma conoscono la Scavolini, che perde (119-115) dopo un tempo supplementare, e con un rammarico che parte da… Palos e arriva a… Manhattan. Una rimessa sbagliata, una tripla concessa a Gerald Wilkins che porta alla proroga, una chiamata indecente dell’arbitro Nba. Che partita, però! Ancora oggi molti tifosi di una certa età, quando vedono i Knicks in tv pensano a quella sera.
Ancor più oggi che il coach della squadra di New York è Mike D’Antoni, ancora in panchina solo (forse) per avere dato una svolta alla stagione scoprendo Jeremy Lin, famiglia di Taiwan, ma nato negli Usa, laureato ad Harvard, una delle migliori università al mondo. Prima era dimenticato, quindicesimo nella lista del roster. Detto “Arsenio Lupin” per le palle rubate, D’Antoni potrebbe avere rubato la lettera di… licenziamento. Vederlo stando seduti in parterre al Madison Square Garden, ricordando le sfide con Pesaro (date un’occhiata alla rubrica “Quelli erano giorni”), è stata una grandissima emozione.